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OLTRE – BARBARA NAHMAD

Barbara Nahmad è un'artista tanto schiva quanto schietta. La sua ricerca è in continua evoluzione, come se si mettesse costantemente in discussione e volesse cercare nella pittura quelle sensazioni e quelle idee che accompagnano la vita quotidiana.

BARBARA NAHMAD / The Beatles, unseen Archives, John Lennon e Yōko Ono, 1971, 90 x 110 cm, 2010

Nata nel 1967 a Milano, nel 1990 si diploma all’Accademia di Belle Arti di Brera, ateneo nel quale oggi è titolare della cattedra di Tecniche e Tecnologie della Pittura. Dopo alcuni soggiorni all’estero, lavora per la televisione e per il teatro come scenografa, per poi dedicarsi totalmente alla pittura. Le sue opere sono state esposte in varie musei italiani, tra i quali il PAC, Palazzo della Ragione e Palazzo Reale a Milano, il Complesso del Vittoriano a Roma, la Fondazione Cini di Venezia, il Museo Ebraico di Bologna e in diverse sedi all’estero a Londra, Berlino, New York, Shangai, Atene, L’Aia e Tel Aviv. Nel 2004 è invitata alla Quadriennale di Roma e nel 2009 alla 53. Biennale di Venezia, dove espone un trittico pittorico sull’economia accompagnato da un’installazione sonora. Nel 2014 ha presentato a Tel Aviv la serie Eden, che dopo varie tappe è stata presentata al MEB di Bologna in occasione della Notte Europea dei Musei. Le sue opere sono presenti in collezioni pubbliche e private tra le quali la Collezione Agnelli, la Fondazione Einaudi e la Fondazione Rosselli a Torino, la Collezione Mediobanca e la Collezione Schwarz e a Milano, nonché in quelle del Museo Ebraico di Bologna e dell’American College of Greece ad Atene.

Gli esordi di Barbara Nahmad, sul finire degli anni Novanta, sono caratterizzati dall’attenzione verso il corpo umano visto molto spesso in chiave erotica. Non una ricerca del modello canonico di bellezza, ma una rappresentazione della quotidianità più banale. Seni cascanti, cuscinetti adiposi, forme non più giovani. Sono questi gli elementi della realtà che non cercano l’approvazione dell’occhio, ma proprio nella loro verità assumono un tono solenne di classicità. “Non c’è alcun intendimento sociologico in questa scelta, visto che il mio scopo è quello di andare oltre lo stereotipo rappresentando un universo al femminile da cui emerge una profonda sensibilità della donna.I corpi sono e non si mostrano, non hanno bisogno di esibirsi in quanto appaiono profondamente consapevoli del loro essere. Una narrazione spinta e coraggiosa, durissima e oscena, in cui il corpo viene sorpreso in atteggiamenti ambigui e imbarazzanti, a tratti quasi patetico. Una messa in scena senza filtri e senza velature, che rinuncia a qualsiasi forma di filtro, presentato tra il 2000 e il 2002 in tre diverse mostre (Studio Cannaviello, Sebastiano Amenta, Mudima2) con la presentazione di Alberto Fiz, Luca Beatrice e Gianluca Ranzi.

L’attenzione si sposta, con lo stesso modus operandi, nel breve ciclo dei bagnanti: figure colte in spiaggia, scene in cui mancano del tutto gli oggetti e il mare diventa un muro invalicabile, una barriera piuttosto che uno sguardo sull’infinito.

Un cambio apparentemente radicale avviene nel 2004 con la serie Yesterday Now, in cui la ricerca di sposta verso lo studio accurato dell’espressione e dell’anima. Ritratti di persone famose, colte in atteggiamenti casuali e non in posa: non sono più nudi, ma sono comunque a nudo. Grandi figure dipinte ad olio, spesso in tonalità monocromatiche, contrastano con i fondi realizzati a smalto in colori primari. Due tecniche che convivono dialetticamente, diverse tra di loro ma che entrambe si rifanno da un lato alla trattazione classica e dall’altra all’inquietudine della contemporaneità, visto che lo smalto consente un raffreddamento progressivo della pittura dando all’insieme un’apparenza caotica e artificiale. Divi ritratti nei loro attimi di incertezza e di smarrimento, come se suggerissero la loro storia personale che forse avrebbero voluto negare. Una figurazione che mostra la figura senza protezione, senza mediazioni, solo per quello che è. E che porterà nei successivi cicli A Rebours e Canto General a lavorare nelle pieghe del già visto, del già noto, attraverso immagini passate decine di volte nei rotocalchi, e riconsiderate. Grandi icone del passato o fatti di cronaca vengono immortalati così come i media li hanno imposti nell’immaginario collettivo.

Non un’esperienza diretta, ma raccontata attraverso il filtro di fotografie già di uso comune, come nel caso del trittico dell’economia, esposto alla Biennale di Venezia del 2009, o come il massacro del Teatro Dubrovka di Mosca del 2002, pubblicato sul Times, o ancora Berlin, esposto alla Quadriennale di Roma del 2003.

Con All’ultimo respiro, Barbara Nahmad sposta l’attenzione sul bacio, quell’attimo in cui due corpi si avvicinano e si incontrano in una intimità che in quell’attimo li astrae da quello che li circonda. Una sorta di anatomia del sentimento in cui due individui separati si uniscono, non solamente con un sentimento romantico e passionale, ma anche famigliare, affettuoso, politico o narcisistico.

BARBARA NAHMAD / Psycho, 170 x 170 cm

BARBARA NAHMAD / OM05 80×100

Nel 2014 l’artista presenta a Tel Aviv il ciclo di lavori Eden, in cui abbandona lo smalto in favore di una pittura con uno stile asciutto ed essenziale, fatto di poche cromie e con una pittura a olio di grande fascino, in cui racconta attraverso le immagini alcuni momenti di vita quotidiana, scene intime di un mondo nuovo che sta nascendo. Barbara Nahmad racconta una storia che spinge lo spettatore ad osservare non solo l’immagine, ma il suo significato. L’artista infatti si ispira ai pionieristici anni a cavallo tra i Quaranta e i Cinquanta in Israele, per raccontare attraverso le immagini alcuni momenti di vita quotidiana, scene intime di un mondo nuovo che sta nascendo. E’ il paradiso terrestre dove tutto inizia, la purezza della vita nuova, dove si imparano i primi gesti, si va a scuola, ci si innamora.  Eden però contiene già in sé una visione del futuro, le fondamenta di una civiltà, della vita adulta nel mondo di domani. E’ uno sguardo che va oltre la realtà che abita. 

Il Signore prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.” (Genesi, 2, 15). Eden è tutto questo: è il luogo dove tutto ebbe origine, il giardino delle delizie in cui l’uomo trova la sua casa e la sua innocenza, il suo sogno e la sua libertà. La tecnica convive con questa nuova condizione, come dice l’artista “Ho infatti deciso di dare più spazio al vuoto, al non detto, al pudore e all’imperfezione, cioè a ciò che ancora è possibile raccontare.

Martina Corgnati nel testo del catalogo scrive: “Le immagini di Barbara Nahmad sono immensamente silenziose ma dicono moltissimo. Raccontano di una società dove tutti, anche i bambini piccoli, si assumono la responsabilità di se stessi, dove il corpo e il benessere fisico occupano un posto importante; raccontano di  una società collettivista dove la solitudine non sembra esistere, una società spartana dove c’è poco ma quel poco sostanzialmente deve bastare per tutti. (…) La pittura forse non racconta la storia, e meno ancora la teologia. Ma essa può esprimere, o raccogliere in questo caso, le qualità salienti di un’immagine e sospenderla nel tempo, decantarla fino a distillarne tutto il senso – e l’atmosfera”.

Ancora una volta, tra il 2017 e il 2018, Barbara Nahmad scardina tutto quello che ha fatto in precedenza. Non più l’uomo, la figura, il corpo, le scene di vita, ma l’indefinito, la sensazione davanti alla natura, orizzonti che non hanno limiti. Con Oltremare Nahmad apre un nuovo capitolo e si riappropria  del colore con tonalità e modi diversi da quelli usati in precedenza. In queste opere pur non discostandosi del tutto dalla figurazione tradizionale, viene condotta una ricerca sul paesaggio naturale che tende all’infinito: sfumature gestuali e grandi velature danno l’idea di una sovrapposizione di strati che cercano l’intimità, evocano l’invisibile in una sorta di neovedutismo contemporaneo. “Il sublime non risiede in nessuna cosa della natura, ma nell’animo di chi guarda”. Immanuel Kant postula l’esistenza di due forme di sublime: il Sublime matematico, che nasce nei confronti di qualcosa smisuratamente grande, in cui il sentimento è legato alla piccolezza dell’uomo nei confronti della Natura. Il Sublime dinamico, invece, non riguarda direttamente una sproporzione fisica, ma un senso di impotenza e inadeguatezza verso la strapotenza, paurosa, minacciosa, delle forze naturali giunge infine a una conclusione che può sembrare un’operazione di rovesciamento: l’umanità della nostra persona non soccombe alla potenza della natura ma, al contrario, si erge orgogliosamente a contemplarla, conscia della propria grandezza morale, dell’invincibilità dell’animo umano di fronte al pericolo.

Barbara Nahmad ha scelto di dipingere i mari e i cieli non con una pittura veloce e frettolosa tipica dell’informale, che è spesso una via di fuga dalla figurazione, e neppure ha optato per l’astrazione: i suoi quadri restano invece frutto di quella pittura-pittura di un artista figurativo che smette di raffigurare e si mette a riflettere su quel “groviglio” che è la vita e il suo dispiegarsi. Allo stesso modo Barbara Nahmad dipinge il potere della natura rappresentando l’idea di infinito in contrapposizione alla finitezza dell’animo umano.

Scrive Giuseppe Frangi nel catalogo che accompagna la personale alla Fondazione La Versiliana di Pietrasanta: “Acqua e cielo sembrano incernierarsi l’una con l’altro, in una sorta di autosufficienza che toglie terreno – è proprio il caso di usare questa metafora – ad altre ipotesi: difficile ipotizzare un’altra sponda. L’oltre probabilmente va visto in una diversa accezione. Suggerisce un “oltranzismo” del mare, un suo proporsi come un’entità non circoscrivibile, come canale ottico che ha per confine un infinito. È proprio il taglio dell’immagine, messo in atto ogni volta senza eccezioni e senza arretramenti, a portarci verso questa ipotesi di lettura. Il viaggio al Nord ha dunque spazzato via le interferenze e ha messo fuori gioco ogni tentazione di scivolare nel vedutismo. (…) la scelta di esporre in alcuni casi i quadri di “Oltremare” non appesi ai muri ma appoggiati ai ciocchi di legno (dispositivi famigliari, che anche in studio ne accompagnano le fasi realizzative), costringe noi che guardiamo ad affrontare un a tu per tu con il mare. Siamo anche noi di fronte a quella distesa di acqua, chiamati a immaginarci non davanti ma nel quadro”.

Barbara Nahmad dimostra così, nelle serie che ha sviluppato negli ultimi trent’anni, di mettersi in gioco, di non accontentarsi della facilità della pittura, che poi facile non è, di cercare sempre qualcosa di nuovo che parte sempre da uno status interiore. Quale sarà il prossimo ciclo?

Articolo di Federico Rui

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