Anish Kapoor si afferma come un personaggio al centro di significative controversie e allo stesso tempo come un maestro del suo mestiere, la cui abilità è riconosciuta in tutto il mondo.
La sua presenza si impone all’interno degli ambienti rinascimentali del Palazzo Strozzi a Firenze, dove il dialogo tra eredità storica e visione avanguardistica si concretizza. In questo contesto, le sue creazioni, iconiche e familiari, subiscono una parziale metamorfosi, entrando in risonanza con l’architettura di mattoni di uno dei più splendidi edifici rinascimentali della città. Nel cuore delle opere di Kapoor giace il concetto di “UNREAL”, l’irreale, e “UNTRUE”, l’inverosimile, attraverso i quali egli esplora e interroga il nostro rapporto con la realtà. Le sue installazioni mirano a sfumare le linee tra realtà e finzione, tra l’unicità e la dualità. Attraverso l’uso di superfici riflettenti, alcune delle sue opere amplificano la nostra percezione temporale e spaziale, confondendo e dilatando i confini tra la superficie e la profondità, tra il tangibile e l’etereo, conducendo la percezione in una dimensione trascendentale. La mostra offre l’opportunità di contemplare una scelta di lavori che solidifica la sua posizione come uno dei più apprezzati artefici dell’arte contemporanea a livello globale.
Ma chi è Anish Kapoor?
Nel sondare la mostra di Anish Kapoor, la mia indagine si configura quasi come l’esame di una scena del crimine, dove è essenziale comprendere anzitutto l’artista stesso. Affronto l’analisi tenendo conto dell’identità culturale di Kapoor, della sua età, delle sue origini e delle sue convinzioni personali; ogni aspetto della sua esperienza di vita si riflette nelle sue creazioni, svelando non solo l’essenza dell’uomo ma anche le trasformazioni che ha subìto nel tempo attraverso la sua arte. Pur presentandosi con una prima impressione di formalismo, le opere in esposizione sono intrise del retaggio multiculturale di Kapoor, che permea sottilmente ogni pezzo. Questo elemento, sebbene non sempre immediatamente percepibile, svolge un ruolo cruciale nell’integralità della sua espressione artistica.
Originario di Mumbai, Anish Kapoor ha vissuto la sua gioventù in India prima di traslocare a Londra all’età di diciotto anni, dove ha poi dato avvio alla sua carriera artistica. Ritengo che la comprensione piena delle sfumature nelle sue opere possa risultare complessa per chi non possiede una conoscenza approfondita della cultura, della spiritualità e del pensiero filosofico indiano. Il mio intento, nel delineare questo articolo, è di svelare e valorizzare gli elementi della sua eredità indiana che risiedono nelle sue sculture e installazioni. Vorrei anche esplorare l’influenza del dinamico mondo del cinema indiano su Kapoor durante i suoi anni formativi; un periodo in cui si dice che “i giganteschi cartelloni pubblicitari dei film più recenti dominavano le strade principali e le code ai cinema sembravano non avere fine”. Questo era il vibrante scenario di Mumbai, il cuore pulsante di Bollywood, che certamente ha segnato gli anni dell’adolescenza del giovane Kapoor. Quindi pur avendo avviato il suo percorso professionale nel Regno Unito, porta in sé un’eredità culturale indiana che, a mio avviso, permea profondamente le sue opere più significative. Con un’eredità culturale variegata, Kapoor si associa frequentemente alle sue origini indiane, anche se tende a essere piuttosto discreto riguardo a questo tema durante le sue interviste. Si considera un outsider sia nel suo paese natale che nel contesto artistico internazionale. In una conversazione con il curatore Marcello Dantas, Kapoor ha condiviso un dettaglio personale rivelatore: “Sono nato in India e mia madre è ebrea; siamo cresciuti nell’ebraismo”. Questa intersezione di identità e culture si riflette molto nella sua arte, conferendole quella profondità e quel senso di appartenenza a più mondi che la rendono unica e affascinante. Per quanto concerne la mostra, credo che le parole chiave intorno alle quali gravitano la maggior parte delle opere siano: Colore, Autogenerazione, Architettura e Kubrick. Colore: nell’arte di Anish Kapoor, il colore assume una valenza quasi magica, essenziale, imbevuta di una gamma di significati profondi. Questi variano dalla celebrazione della memoria culturale, come evocato dall’Holi, il vivace festival indiano dei colori che si svolge con la prima luna piena di marzo, fino a risonanze di natura metafisica. Nella pratica induista, è comune l’uso di tinte vivide per adornare le vesti delle divinità.
Nel contesto induista, ogni colore ha il proprio linguaggio simbolico: il rosso è il colore del corpo, del sangue, simbolo di nascita e vita; il giallo risplende con l’intensità delle passioni ardenti; il bianco è l’incarnazione della purezza, mentre il blu evoca la dimensione spirituale e il trascendente. Il rosso necessita di una menzione speciale, è il colore più ricorrente e vibrante nelle opere di Kapoor, risuona con una potenza viscerale che interpella direttamente i sensi dello spettatore, evocando il corporeo e l’intimo, nonché tematiche più oscure come lo spostamento, la violenza e il trauma. Per quanto concerne il nero, Kapoor detiene dal 2016 il diritto esclusivo di utilizzare il vantablack, una sostanza costituita da nanotubi di carbonio che assorbe fino al 99,965% della luce visibile, definendo così un’assenza di luce che è quasi totale. Il nero per Anish Kapoor non è solo la negazione della luce, ma diventa un silenzio luminoso, un vuoto pregnante che ingloba lo spettatore in una caduta nelle profondità del pensiero esistenziale. Autogenerazione: Oltre al colore, un altro aspetto fondamentale dell’opera di Kapoor è l’autogenerazione. In un’intervista, l’artista ha confidato: “Ho una fantasia sull’oggetto autogenerato, autoprodotto, in qualche modo rivelato”. Ha inoltre sottolineato che in questo processo di lavoro “voglio negare la mano. Le opere “autogenerate” sono quelle cinetiche, in continuo movimento, progettate per costruire, decostruire e ricostruire se stesse, apparentemente con una volontà propria. Queste installazioni coinvolgono oggetti che sono mutevoli e che perdono una parte di sé nel processo come nell’opera Svayambhu; è una parola sanscrita che significa qualcosa che si crea da solo ed è costituita da un enorme tronco che si muove silenziosamente e quasi impercettibilmente attraverso una porta che mette in comunicazione due sale. Composta da cera, vaselina e un pigmento rosso intenso, il tronco è collocato su un basamento fissato a un sistema di binari che permette all’oggetto di andare avanti e indietro tra le due sale. La lunghezza del sistema di binari e le dimensioni delle sale variano in ogni contesto espositivo. La forma pesa circa quaranta tonnellate e si muove a cinquanta metri all’ora.
Architettura: Quando Kapoor ha iniziato a sperimentare con le forme architettoniche, ha fatto quella che ha definito una “strana scoperta”: “Queste opere, che operano secondo una metodologia che Kapoor definisce di “svuotamento”, sollevano questioni di “essere e non essere” o di ciò che viene convenzionalmente discusso come il concetto di vuoto.
Questa sezione analizza le esplorazioni di Kapoor nel campo dell’architettura, che non sono semplici opere d’arte che occupano uno spazio tridimensionale, ma che apparentemente trascendono il mezzo fisico. Oltre a sottoporre lo spettatore a esperienze visive avvincenti, è probabile che lo spettatore si confronti con una miriade di emozioni, come la paura e l’apprensione associate alla depersonalizzazione. Alla fine del “viaggio” trovo Kubrick … Il dialogo con lo spettatore finisce, nel cortile interno (Salone del Cinquecento) del palazzo dove trova posizione la sua “Void Pavillon VII” 2023. – all’interno del padiglione mi sento come Mr. Bowman nell’accezione kubrickiana di “2001 Odissea nello spazio”, catturato da entità quasi divine, creature di pura energia e intelligenza senza forma o aspetto. Mi sento osservato da tre grandi forme rettangolari come se l’ambiente (rinascimentale) voluto da queste “entità”, possa essere percepito come accogliente, esattamente come facciamo noi negli zoo con gli animali, a cui cerchiamo di dare quello che noi pensiamo sia il loro habitat naturale. Uscendo mi posso ritenere soddisfatto e con una convinzione… credo che il cinema, soprattutto quello di Kubrick, abbia catturato lo sguardo di un giovane Kapoor curioso esploratore dell’intimo umano, trovando in diverse opere delle assonanze con Stanley … il genio.