Dormo poco sogno tanto è il titolo della mostra di Martina Antonioni che ho curato nel 2016.
La conoscevo già da diversi anni – nel 2013 l’avevo inserita in un group show -, ma non mi ero mai deciso a esporla in una personale perché reputavo che la sua ricerca dovesse ancora evolversi. In realtà mi sbagliavo. Non era la sua pittura ad essere ancora indecisa, ma era la mia visione ad avere qualcosa da imparare. L’alternarsi di pieni e vuoti, di segni e macchie, di figurativo e informale; i soggetti appena delineati, a volte impercettibilmente con la matita, accostati a pennellate più vigorose; i colori essenziali che si contrappongono al grezzo della tela. In una apparente semplicità c’era molto di più di quello che vedevo. Martina è nata a Milano nel 1986 e siamo giunti ormai alla nona mostra insieme (l’ultima con lo scultore Paolo Nicolai, le cui opere creano un dialogo perfetto).

MARTINA ANTONIONI / Deluderti (dettaglio) – 2021, acrilico, matita, bomboletta spray, smalto ad acqua e olio su tela, 100 x 175 cm
Le piace citare Adrienne Rich, poeta, saggista e femminista americana, sentendosi “uno strumento a forma di donna che cerca di tradurre pulsazioni in immagini per il sollievo del corpo e la ricostruzione della mente.” Fondamentale è stata la conoscenza di un artista che anche io ho amato: Claudio Bonichi. Le sue muse, donne armate di ventagli, nascoste da maschere, riflesse nude negli specchi, sono state presenze costanti nello studio di Martina. La osservano e si nascondono, in silenzio le consentono di guardare i sogni con gli stessi occhi con cui osserva la realtà. “Come uno specchio restituisce al tempo presente ciò che gli si affaccia dinanzi, allo stesso modo, attraverso la creazione di mappe del sentire, restituisco agli elementi che ne fanno parte le loro molteplici possibilità”. La natura impone dei limiti spazio-temporali, mentre la ricerca e l’aspirazione fanno in modo che tali confini siano sempre più distanti. Anche la pittura vuole spostare il limite. Se da un lato può essere apparentemente descrittiva, dall’altro tende a spiegare una verità non oggettiva, ma mediata dall’occhio e dal cuore dell’artista. Può arrivare a perdere ogni funzione didascalica, e quindi di rappresentazione del vero, in favore di una “sensazione” composta da una libera composizione di forme e colori senza alcuna imitazione del reale.
MARTINA ANTONIONI / Meglio di così (dettaglio) – 2021, acrilico, matita, bomboletta spray, smalto ad acqua e olio su tela, 112 x 120 cm
Il lavoro di Martina Antonioni può essere definito surrealista e immaginario, fatto di “piccole cose” che a volte presentano quelle che a occhio nudo potrebbero considerarsi delle imperfezioni. Sono sogni, esperienze personali che caratterizzano la vita e che invitano a una caccia al tesoro che ci riporta all’ingenuità fanciullesca e che solo la lucidità di una mente sognatrice può vedere. Martina partendo dall’interno dei suoi sogni e dalla sua memoria racconta la sua storia, conducendo lo spettatore in luoghi lontani che si raggiungono solo grazie agli indizi che l’artista ci svela e che noi possiamo ricostruire grazie all’immaginazione.
“Lo spazio vuoto dentro il quale gli elementi danzano, altro non è che un cielo fantastico, dove la perdita di un centro diventa strumento primario e necessario allo sviluppo di forze di attrazione e repulsione e alla nascita di racconti possibili”. Questo processo porta quindi a un altro punto fondamentale che caratterizza la produzione di Martina: il rapporto intimo che si genera fra chi produce arte e chi la fruisce.
Le opere sono toccate con la delicatezza della gestualità dell’artista, che tramite acrilici, smalti e bombolette spray fissa il suo pensiero quasi citandolo e creando forme astratte che suggeriscono l’incipit di un sogno e l’intimità dell’artista. Una ricerca che si fonda sull’equilibrio tra la forma e la sostanza, tra il detto e il non detto, tra i pieni e i vuoti che occupano perfettamente la tela ritmandola, dando i giusti spazi di respiro fra ciò che si mostra e ciò che si può immaginare. L’elemento che quindi permette di riconoscere le sue opere e con la quale l’artista dimostra di avere una sua forte e personalissima identità è la figurazione, che perde la sua caratteristica descrittiva, perché i suoi elementi ci parlano di molteplici possibilità, in una sorta di racconto senza uno schema prefissato, ma allo stesso tempo solo apparentemente casuale. Le sue sono immagini libere che, nel silenzio di un sogno come nel vuoto di un pensiero ineffabile, si traducono in pezzetti di un puzzle da ricostruire, all’interno di uno spazio che lei stessa definisce “lo spazio vuoto dentro il quale gli elementi danzano”.
MARTINA ANTONIONI / Non vola una mosca (dettaglio) – 2023, acrilico, matita, smalto ad acqua e olio su tela, 118 x 94 cm
MARTINA ANTONIONI /Stomaco (dettaglio) – 2018, acrilico, matita, bomboletta spray, smalto ad acqua e olio su tela, 131 x 114 cm
Anche Eleanor Roosevelt ci ricorda che “Il futuro appartiene a chi crede nella bellezza dei propri sogni”. È inoltre ravvisabile un richiamo ad alcune teorie di André Breton, che, nel Manifeste du surréalisme scriveva: “Il surrealismo si fonda sull’idea di un grado di realtà superiore connesso a certe forme di associazione finora trascurate, sull’onnipotenza del sogno, sul gioco disinteressato del pensiero. Tende a liquidare definitivamente tutti gli altri meccanismi psichici e a sostituirsi ad essi nella risoluzione dei principali problemi della vita.” Il surrealismo di Martina Antonioni rimane però astratto e non figurativo, il sogno non viene riproposto in maniera verista, ma sempre accennato, quasi fumoso, stimolando la sensazione di poterlo immaginare, di poterlo toccare ma non di poterlo vedere. “Dando nuova vita ad un mondo fatto di memoria individuale, lascio il ricordo libero di sviluppare le sue potenzialità implicite”: è lo spettatore a ritrovare la storia che lei suggerisce senza svelarla mai. Il sogno sta alla veglia come l’apparenza alla realtà, il falso al vero, eppure, benché illusorio, esso è in qualche modo reale. Non esiste un limite ai sogni.
Articolo di Federico Rui