La prima mostra che ho organizzato di Paolo Nicolai è stata all'interno dell'Anfiteatro Romano di Luni, un luogo carico di storia – spesso dimenticata – e scenario perfetto per le sue sculture.
L’inaugurazione è stata introdotta da un dibattito tra il sottoscritto e l’artista, che ripercorreva alcuni punti salienti della sua ricerca e la metteva in relazione (o prendeva le distanze?) da tutta la tradizione statuaria classica. Paolo Nicolai nasce architetto, professione che ha svolto fino a pochi anni fa. Alcuni suoi illustri predecessori, come Raffaello, Bramante, Bernini, Le Corbusier, avevano già sentito il desiderio di confrontarsi con la pittura e la scultura. Altri invece si erano trovati a confrontarsi non più con lo spazio ma con la qualità dell’oggetto e l’estetica quotidiana, dando così origine all’industrial design e al graphic design (Giò Ponti, Fortunato Depero, Ettore Sottsass, Andy Warhol). Chi nasce a Carrara, prima o poi si scontra con l’imponenza e la bellezza delle cave che la circondano. E nei dintorni di Carrara si trova proprio Luni, antica colonia romana talmente ricca e florida che fu devastata e saccheggiata dai barbari che credevano fosse Roma. Vivere a Carrara significa dunque confrontarsi con la storia. Paolo Nicolai parte proprio dalla classicità. Prende una forma già conosciuta e in qualche modo assimilata – una sorta di archetipo – e la trasforma in un linguaggio contemporaneo. Non è infatti la forma in sé a interessare, quanto piuttosto il messaggio in essa contenuto. Non serve e non vuole distrarre il pubblico con una novità fine a se stessa. Lea Vergine diceva che la ricerca spasmodica della novità serve solo a fare affari, fin quando non ci si accorge che spesso la novità in realtà non c’è. Nelle sue opere scultoree è evidente e ben riconoscibile la ricerca della tridimensionalità, che si traduce in statue ricche di quel dinamismo che caratterizza le superfici sinuose, talvolta morbide, talvolta ruvide, in cui la materia diventa la protagonista estetica. Muovendosi in questo ambito, la ricerca si sposta nell’utilizzo e nella interpretazione del “riciclo” e della “sostenibilità”. Nicolai, infatti, utilizza gli scarti di marmo, derivanti da rimanenze industriali o da blocchi franati in fase di segagione. Vengono rielaborati e messi in dialogo diretto con altri materiali di riciclo a cui dona una nuova vita. Non si tratta – come molti artisti concettuali fanno – di prendere un oggetto di uso comune ed estrapolarlo dal suo contesto, quanto piuttosto di trasformare una materia giunta alla fine del suo ciclo di vita e utilizzarla come medium artistico. Vittorio Pica diceva già nel 1903 che lo scultore ha il dovere di fissare nella materia gli aspetti più significativi dei suoi tempi. Le plastiche, i circuiti elettronici, i cavi elettrici, le medicine usate, le sabbie diventano il nuovo marmo.
PAOLO NICOLAI / “Hermes”, 2023, marmi e plastiche riciclate, 64 x 60 x 40 cm
PAOLO NICOLAI / “Maschere”, Installation View, Anfiteatro Romano di Luni, 2023
Il messaggio è quello della sostenibilità, del riuso/riciclo, superando così il concetto duchampiano di dare nuovo significato alle cose e utilizzando un materiale contemporaneo in dialogo con il passato. L’immaginario proposto da Nicolai svela l’essenza di questi materiali, paradigma ”on the edge” della rigenerazione ecologica. Parliamo di PET, PVC, HDPE, PMMA, ovvero di Plexiglas, di Policarbonato, di rifiuti marini, giocattoli, medicinali. A questi si aggiungono anche gli scarti che derivano dalla produzione dei pannelli alveolari con le loro diverse anime, colori e trasparenze ma anche i tubi delle operazioni di resinatura. Materiali che uniti fra loro danno vita a colori e sfumature che arricchiscono l’estetica delle sue opere. L’apparenza nasconde una ricerca che vuole materializzare un’astrazione. La forma diventa dunque funzionale al messaggio, e la verità in essa contenuta deve essere riconoscibile da tutti. Il risultato è un universo poliedrico e sartoriale in cui lo sguardo si posa su una sinestesia visiva. Paolo Nicolai riprende alcune tematiche della scultura greca e in generale di quella antica – che di fatto ne è derivazione, imitazione o corruzione, – come l’ideale di perfezione o divinizzazione a cui sacrificare l’anima e i sentimenti. A maggior ragione, quelle forme e ideali, che oggi appaiono archetipi di tutta la statuaria, diventano per l’artista un’astrazione ideale della realtà. Questa illusoria perfezione – che interpretiamo come tale perché ne conosciamo la figura – viene realizzata con materiali che apparentemente sembrano sporcare la superficie, consumandola e imbrattandola fino a corromperne la forma. Per rafforzare ancora di più il suo messaggio ecocontemporaneo, l’artista ricorre a figure sperimentate e già conosciute come i modelli di Hermes, Apollo, Hera, Venere, Athena di cui mantiene l’ideale canonico di bellezza. Enrico Thovez, nel “Il nuovo Rachitismo dell’arte” (1895), nota che “vi sono intere classi di sensazioni, di mosse che non hanno mai avuto un’espressione plastica. Non c’è più nessuno che senta nulla, che abbia bisogno di pensare, di avanzare, di infondere il genio nella materia. I migliori si cristallizzano in una inerte ammirazione per l’antichità, anzi pel rinascimento.”
Se il XX secolo si è contraddistinto per un eccesso di ricerche formali, oggi è tornato il momento di chiedersi cosa voglia dire essere contemporaneo. È davvero ancora il caso di trovare a tutti i costi una novità? O forse è meglio interrogarsi su cosa sia la vita quotidiana? Lo stesso Thovez prosegue la sua disanima notando “come mi è grave dover passare per ammiratore o per tollerante di un’arte che non ha nessuna affinità colla mia anima, anzi ne è la negazione assoluta! Della scultura poi! Nelle nostre esposizioni è ridotta a qualche cosa di miserabile, al fantasma di una cosa viva in tempi dimenticati. Ma dal solo studio della plastica greca io ho derivato nei miei occhi una potenza di leggere la realtà che mi dà dei brividi di delizioso spavento”. Dunque Thovez insiste che per l’avverarsi di un nuovo stile, i risultati vanno ottenuti con “le forme e secondo lo spirito del proprio tempo”. Il rinnovamento dell’arte passa anche attraverso la presa di coscienza da parte delle masse che esistono degli interrogativi e delle problematiche a cui bisogna far fronte. In questo senso va letta l’opera di Paolo Nicolai, che pur ammirando la classicità e ispirandosi ad essa, va oltre, sentendo la responsabilità del proprio tempo. Non si tratta di un ritorno al passato, ma di un utilizzo di un materiale che diventa metafora della nuova permanenza, del residuo che ci sopravviverà così come le rocce calcaree sono sopravvissute alla classicità. Le infinite combinazioni della plastica, in termini di colore e di trasparenza, e le dimensioni casuali del marmo, piccole tessere, listelli, forme inutilizzabili e destinate al macero, vengono ricomposte come se fossero dei pixel, diventando figura. Sia la plastica che il marmo hanno avuto un loro vita e portano con sé il loro passato, le proprie esperienze. Non c’è da meravigliarsi se dunque appaiono erosi, sfibrati e consumati. Nè c’è da stupirsi nel vedere figure mutile, già sottratte di quelle fragilità che non sopravviverebbero al loro tempo. Sono frammenti archeologici del futuro, non opere che tornano dall’antichità, quanto opere nuove destinate a rimanere.
Articolo di Federico Rui