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VOCI INASCOLTATE: donne, arte e identità nella comunità LGBTQIA+

Glamour e sovversione: il linguaggio visivo della cultura drag e camp. Dall’ironia alla provocazione, come l’estetica queer ha ridefinito l’arte e l’intrattenimento.

SASHA VELOUR /

Nel gioco delle illusioni e delle iperboli visive la cultura drag e l’estetica camp si sono imposte come due distinti strumenti di espressione artistica e sociale, ribaltando convenzioni e ridefinendo il linguaggio dell’arte e dell’intrattenimento. Infatti il drag, oltre ad essere una forma creativa, è una modalità di comunicazione straordinariamente efficace: ogni performance costituisce una narrazione che, attraverso la costruzione visiva del personaggio, la teatralità e l’ironia, veicola idee complesse e provocatorie. In pratica, come molte campagne pubblicitarie o altre forme visive, anche il drag e il camp utilizzano l’estetica come veicolo di messaggi sociali, politici e culturali, sfidando le convenzioni e generando reazioni forti nel pubblico. Non è un caso che le figure iconiche della scena drag abbiano fatto della provocazione uno strumento di resistenza, modificando il loro corpo ed aspetto in una dichiarazione di intenti. La comunicazione visiva drag, grazie a esagerazione e teatralità, è dunque un perfetto esempio di come l’arte possa essere al tempo stesso spettacolo e critica sociale.

Ma cosa significa davvero questo termine?

Nella sua essenza più pura è una forma performativa che esagera e gioca con i codici di genere, trasformando l’identità in un atto teatrale e visivo. Etimologicamente la parola drag ha però origini incerte: alcuni la riconducono all’acronimo “dressed resembling a girl“, usato per indicare attori maschi che recitano in ruoli femminili nel teatro elisabettiano. Altre teorie suggeriscono che derivi dal verbo inglese “to drag” (trascinare), riferendosi ai lunghi abiti che sfioravano il pavimento durante le performance. Oggi la drag culture è molto più di una semplice esibizione: è un manifesto artistico, una provocazione sociale e un’affermazione d’identità. Bisogna tuttavia fare attenzione: drag non è sinonimo di travestitismo. Quest’ultimo è un concetto più ampio che include chiunque indossi vestiti del genere opposto per espressione personale. Ne è una sfumatura ulteriore il cross-dressing riferito a persone che, in modo occasionale o abituale, si vestono con abiti attribuiti all’altro genere senza avere intenti performativi. Insomma, non tutti i cross-dresser sono drag queen o drag king (performer che interpretano un’estetica maschile, giocando con le caratteristiche del genere), e viceversa.

 

Dall’epoca elisabettiana ai cabaret en travesti dell’Ottocento, fino alla sottocultura delle ball culture afroamericane e latine degli Anni Settanta e Ottanta del Novecento, la storia del drag è costellata da momenti di rottura e reinvenzione. Nelle cosiddette ball room, ovvero spazi di competizione performativa in cui ci si sfidava attraverso sfilate, danza e voguing, emersero figure leggendarie come Pepper LaBeija e Dorian Corey. Grazie a performance iconiche combattevano le discriminazioni razziali e di genere, creando uno spazio sicuro per l’autoaffermazione.  È solo negli Anni Novanta che il fenomeno drag si affaccia nel mainstream con RuPaul, il cui successo segna una svolta nella percezione pubblica di questa forma d’arte. Parallelamente il concetto di camp segue un’evoluzione propria. Susan Sontag, nel celebre saggio del 1964 “Notes on “Camp”“, lo descrive come un’estetica che celebra l’artificio, l’esagerazione e il gusto del kitsch, esaltando la teatralità e la parodia. Per lei il camp è “serious about the frivolous, frivolous about the serious” , ovvero prende sul serio ciò che è frivolo e viceversa. Diversa è la lettura offerta da Linda Hutcheon in “A Theory of Parody: The Teachings of Twentieth-Century Art Forms“, che vede il camp come un dispositivo postmoderno capace di mettere in discussione il potere e sovvertire le norme culturali dominanti attraverso la riappropriazione ironica dei simboli tradizionali. Spesso il camp viene confuso con il kitsch, ma c’è una differenza sostanziale: mentre il kitsch è ingenuo, involontariamente esagerato e sentimentale, il camp è consapevole, intenzionale e gioca con il cattivo gusto come scelta artistica e sovversiva. Il kitsch si prende sul serio, il camp si fa beffe di se stesso.

RUPAUL  / Courtesy of Paramount+

E oggi chi sta portando avanti questa tradizione?

Tra gli artisti contemporanei che hanno saputo trasformare il linguaggio visivo del drag in una forma d’arte sofisticata e politicamente incisiva, spicca la figura di Sasha Velour. Performer, illustratrice e regista, Velour ha ridefinito una narrazione drag attraverso l’uso dei nuovi media, creando spettacoli che mescolano teatro, moda, grafica e attivismo. Il suo celebre numero di “So Emotional“, in cui la rimozione della parrucca diviene un atto simbolico e poetico, dimostra come il drag possa andare oltre l’intrattenimento per diventare una potente forma di storytelling. Accanto a lei figure come Jinkx Monsoon, Violet Chachki e The Boulet Brothers stanno esplorando nuove estetiche, contaminando il drag con il cinema, la fotografia e la performance art.

Anche in Italia la cultura drag ha guadagnato terreno, seppur con un impatto contenuto rispetto agli Stati Uniti. Il debutto televisivo di format quali “Drag Race Italia“, criticati da un pubblico più attento ed informato sulle questioni di genere, ha dato nuova visibilità alla scena drag nazionale che si muoveva tra club e circuiti culturali. Artisti come Farida Kant, Ava Hangar e La Diamond stanno riconsiderando il ruolo del drag italiano dimostrando che non si tratta solo di spettacolo bensì di identità e critica sociale. Del resto perfino canali televisivi di ampia portata hanno, nel corso delle stagioni, “flirtato” con l’estetica camp: basti pensare ai programmi di Piero Chiambretti dove ironia e provocazione si mescolavano in un gioco mediatico dissacrante.

Ma quale sarà il futuro di questi linguaggi visivi in un mondo sempre più polarizzato?

Le recenti politiche conservatrici, come quelle promosse dal nuovo presidente USA, puntano a limitare l’espressione delle identità queer e a censurare contenuti considerati “provocatori”. La domanda sorge perciò spontanea: la provocazione sarà ancora un’arma efficace per sfidare il sistema o assisteremo ad una sorta di repressione culturale?

Al momento una sola cosa è certa: in un’epoca in cui l’arte e la comunicazione sono più interconnesse che mai, l’estetica queer continua a dimostrare che ironia ed eccesso rimangono strumenti fondamentali per riscrivere le regole del gioco.

Articolo di Elisabetta Roncati:Art Sharer e Creator Digitale, fondatrice di Art Nomade Milan

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